Paolo Scheggi: il teatro dell’illusione. 1968-1969 di Davide Silvioli
«La maggior parte dei testi contemporanei nascono legati allo spazio scenico dell’illusione e testi antichi, nati in condizioni di diverso senso del teatro, vengono volgarmente adattati al teatro dell’illusione» (Rusconi, 1969). Sintetica ed esaustiva al contempo, questa affermazione di Paolo Scheggi potrebbe corrispondere a una dichiarazione di poetica, utile per comprendere la visione che ha scaturito prima e sovrinteso poi il suo rapporto con il teatro. L’artista apostrofa la pratica teatrale tradizionale come «teatro dell’illusione», poiché totalmente discostata dall’esperienza esistenziale percepita in prima persona, dal momento che «nel teatro dell’illusione lo scenografo riempie solo uno spazio che lo spettatore non può vivere» (Rusconi, 1969), relegando il fruitore dello spettacolo a un ruolo gregario, statico, passivo, alieno. Si potrebbe sostenere, pertanto, che tutta la ricerca in campo teatrale perseguita dall’autore inizia da questo atto di consapevolezza, che innesca una sperimentazione, a vocazione gradatamente sempre più interdisciplinare, mirata a immettere il senso estetico del teatro nel mezzo dello svolgersi del vissuto. Dopo essere stato, già agli inizi degli anni Sessanta, fra i protagonisti della cosiddetta “uscita dal quadro” successiva all’esempio di Fontana – insieme, fra gli altri, a Manzoni, Castellani, Bonalumi, Dadamaino – sembra che Scheggi, sul finire del decennio, come risultato fisiologico del suo modo di operare, si cimenti in ciò che potrebbe essere denominata una progressiva ma incontrovertibile “uscita dal palcoscenico” più abituale, suffragando la sua già palesata predisposizione a sovvertire i paradigmi. Allora, da questa prospettiva, oltrepassare tale illusione per sanare, attraverso l’arte, il divario che separa teatro e vita significa per lui «entrare nella realtà, trasformare lo spazio virtuale in spazio reale, spostare lo spazio reale in tempo visibile e vivibile, rifiutare la contemplazione per l’azione, lo statico per il dinamico» (Rusconi, 1969).
Come noto, il suo primo contatto con il teatro è canonicamente datato al 1968. Questa datazione è motivata da una doppia ragione, che allinea perfettamente l’evoluzione della ricerca di Scheggi a una sensibilità dal respiro più ampio. Difatti, se da un lato il 1968 è l’anno in cui egli ha realizzato l’opera partecipativa Interfiore, che, strutturata al pari di un «vero e proprio allestimento d’interazione scenica tra elementi mobili, la luce e il pubblico» (Barbero, 2016), sancisce disciplinarmente l’incipit dell’interesse dell’artista verso la pratica teatrale, dall’altro esso coincide con l’anno del maggio francese, che avvia un’ondata di lotte politiche e sociali.
Invero, avvalorando l’importanza del biennio qui preso in analisi, i suoi «ultimi tre anni di vita vanno a coincidere con i fermenti rivoluzionari del movimento studentesco, in Europa e in Italia. L’happening e la performance diventano per molti giovani creativi l’espressione più efficace della loro protesta. Scheggi è all’epoca attratto dall’azione teatrale, che affronta in un primo momento da scenografo e poi da regista» (Bortolotti, 2007).
Mosso dall’intenzione di «coinvolgere in modo più attivo e diretto lo spettatore, il teatro era potenzialmente il veicolo più vicino» (Rusconi, 1969) a questo proposito, avviando un filone di ricerca che l’autore porterà avanti fino alla sua scomparsa prematura e improvvisa.
L’introdotta presa di coscienza da parte di Scheggi, che da ora in poi influenzerà i suoi prossimi passi, sembra la filiazione naturale del suo modo di superare la categoria della superficie, secondo un’articolazione «che costituisce un elemento integratore dello spazio abitabile, che può valere, quindi, quale modulatore d’una situazione dimensionale» (Dorfles, 1966)[1]. Dilatando nello spazio la dimensione dell’opera al di là dei rispettivi limiti fisici e al punto di inglobare nella stessa il fattore del tempo come un autentico componente materiale, egli passa dal lavoro bidimensionale all’ambiente tridimensionale, esperibile dal fruitore.
Così, applicando questo principio, «l’opera si estende, si stira, si apre e si abbandona allo spazio, diventa spazio: avvolge e coinvolge l’individuo che non può più, semplicemente, ammirarla: deve viverla, farne esperienza, sperimentare le diverse sensazioni ottiche, percettive, fisiche e sensoriali scaturite dal suo incontro con l’environment» (Bignotti, 2011).
Appare essere questa la fase di sperimentazione, l’intuizione o l’esigenza estetica – ovvero affrontare lo spazio-tempo – che ha portato Scheggi a compiere quel passaggio espressivo fondamentale che, da lì a poco, lo avrebbe condotto ad abbandonare lo spazio di mostra tradizionale per approdare ai luoghi del vivere ordinario, alla realtà urbana e collettiva vera e propria, transitando, appunto, per il teatro.
Indirettamente, per di più, ciò dimostra come il suo percorso procedesse all’unisono con le dinamiche artistiche internazionali più innovative e sperimentali, che – Fluxus su tutti – impugnavano, a queste date, il teatro e la performance come strumento d’estetizzazione del sociale e dell’esistenziale. La metabolizzazione di questa tendenza da parte dell’artista e la relativa riformulazione nei codici della sua personale ricerca non solo ne espandono l’orizzonte creativo ma, più in controluce, giustificano, da una parte, la frequenza crescente – da questo momento in poi – dello sconfinamento del lavoro di Scheggi in ambito teatrale e, dall’altra, giungono a configurare, con pertinenza, la sua attività negli argini di un contesto culturale ben più esteso[2].
Non a caso, Interfiore [Fig.1] è stato concepito e presentato in occasione della manifestazione Il Teatro delle mostre, presso la storica Galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis, a Roma, nell’anno suddetto. Si tratta di un lavoro cardinale nell’attività dell’artista, in cui «cerchi sospesi nel buio come fiori luminosi inducevano lo spettatore ad aggirarsi tra loro in uno spazio percettivamente indefinito» (Corà, 2007). Da ora in avanti, Scheggi inizierà ad importare nel teatro i caratteri della sua ricerca pregressa, trattandolo come un luogo privilegiato di sperimentazione interdisciplinare[3].
Andando avanti, i suoi Interventi plastico-visuali, sempre del 1968, sono un esempio calzante di questa inclinazione, poiché la «sperimentazione plastica dello spazio-ambiente del teatro si collega, ampliandole, a certe possibilità già studiate per le Intercamere plastiche. L’occasione di estendere queste ricerche allo spazio del teatro ha permesso di realizzare e funzionalizzare, a contatto con un pubblico articolabile e intercambiabile, degli esperimenti di solito relegati nell’ambito ristretto delle gallerie» (Scheggi, 1968).
Elaborati per il testo teatrale di Giuliano Scabia, Visita alla prova dell’Isola purpurea, decretano, così accentuata, l’ingresso di Scheggi nello spazio fisico del teatro, oltre a dimostrare la prossimità diretta e immediata che egli stabilisce fra arte visiva, pratica installativa e scenografia.
Su tali presupposti, avendo modo di lavorare su progetti strutturati su scala urbana e sociale, il 1969 si delinea come l’anno in cui Scheggi orienta totalmente la propria ricerca artistica verso la possibilità di impostare un connubio indissolubile con la pratica teatrale, persuaso dalla volontà di erodere ogni presunta demarcazione fra questi due domini. L’autore, in una quadratura siffatta, sembra impugnare l’azione performativa, declinata come evento, quale medium per esprimere il proprio sentire, adoperando il palcoscenico – inizialmente quello teatrale ma poi più di frequente quello urbano – al pari di un supporto dove conferire nuove opportunità di forma e di senso alla materia; nella fattispecie alla materia umana.
L’anno si apre con l’azione teatrale Oplà-stick, passione secondo Paolo Scheggi [Fig.2], tenutasi – la prima volta – alla Galleria del Naviglio di Milano.
Oltre che per il valore estetico, questa operazione è fondamentale perché ha visto Scheggi, per la prima volta, lavorare con il teatro a tutto tondo, occupandosi della scrittura, della regia e della scenografia dell’opera. Se nella versione milanese quattro attori compiono movimenti ispirati dal testo recitato da una voce fuori campo, maneggiando e spostando lettere bianche collocate su un tabellone nero alle loro spalle, nella riproposizione fiorentina[4] Oplà, azione-lettura-teatro [Fig.3], di pochi mesi susseguente, le lettere O, P, L, A, ingigantite come su scala teatrale – o monumentale – e portate in spalla da alcuni personaggi, escono dalla Galleria Flori, invadendo le strade della città di Firenze e unendosi con la gente comune. È quest’ultimo aspetto a dimostrare quanto la ricerca di Scheggi fosse sospinta dalla già sottesa «necessità dell’operazione artistica di proiettarsi sempre di più in una dinamica che si riproponga come vita» (L. Vinca Masini, 1969).
Con medesima intensità, tale attitudine, protesa alla sovrapposizione di arte e vita, trova conferma, nei ranghi della concezione di un’opera d’arte sempre più totale, in Autospettacolo. Atto unico del tempo; azione presentata a Caorle, nel 1969, durante la rassegna Nuovi materiali, nuove tecniche [Fig.4]. Urbanisticamente invasiva, ha previsto l’affissione di mille manifesti in aree della città veneta, di cui parte disposti all’interno di cabine preposte e altri su appositi pannelli. Inoltre, microfoni e altoparlanti disseminati in più punti di un percorso ideale trasmettevano dialoghi, suoni, voci e rumori degli artisti/attori all’interno del Teatro Comunale, così come, viceversa, quelli dei cittadini che si imbattevano in queste apparecchiature, impostando un nesso di totale transitività fra interno teatrale ed esterno urbano, fra pubblico e attori di scena. L’obiettivo era «rendere il visitatore, l’autore, il partecipante casuale di un’osmosi di spettacolo-atto-tempo» (Scheggi, 1969).
Dopo la sperimentazione avvenuta con Oplà, azione-lettura-teatro e con Autospettacolo. Atto unico del tempo, la ricerca dell’osmosi a cui allude Scheggi ritorna in maniera convincente e radicale nello spettacolo, diretto, scritto e costruito scenograficamente dall’artista, Marcia funebre o della geometria, processione secondo Paolo Scheggi.
Aprendo ora una parentesi, si segnala che l’operazione comasca citata, che testimonia come la ricerca teatrale e performativa di Scheggi fosse ormai matura e in facoltà di coniugare compiutamente arte ed esperienza umana, è preceduta di pochi mesi dalla progettazione della Scenoplastica bianca; ovvero l’apparato scenografico per lo spettacolo, con la regia di Roberto Lerici presso il Teatro Durini di Milano, denominato Materiale per sei personaggi. Sebbene in questa circostanza, così come nei primi approcci, lui abbia agito esclusivamente da scenografo, il lavoro identifica un passaggio importante per cogliere il mutarsi dell’attività dell’artista in chiave sempre più interdisciplinare, sincronicamente e in risposta allo sviluppo del binomio arte e vita. Ebbene, in questo frangente particolare «Scheggi utilizza una parete dell’Intercamera plastica [del 1967] sulla quale sono proiettati video e immagini» (Bignotti, 2016), dando prova di saper aprire il proprio lavoro, anche quello antecedente, a contaminazioni di vario ordine.
Tornando a Marcia funebre o della geometria, processione secondo Paolo Scheggi [Fig.5], come deducibile dalla titolazione, si tratta di una pièce teatrale dalla ritualità profonda, messa in scena a Como – sempre nel 1969 – durante la manifestazione Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana, curata da Luciano Caramel.
La performance traduce in «azione scultorea e vissuta gli elementi geometrici alla base della sua indagine visuale, plastica e ambientale, ora verificandone la tenuta nel farsi voce, corpo, azione, viatico spirituale» (Bignotti, 2016); nel farsi entità esistenziale e trascendentale insieme. Trasmesse da registratori, una voce femminile e una maschile recitano stralci di letture bibliche, pastiches di testi di scena, di frammenti lirici, accompagnando la processione dei volumi di sei solidi basilari – il cubo, la sfera, la piramide, il cono, il cilindro, il parallelepipedo – portati sopra le teste di attori che sfilano nella piazza pubblica della città lombarda, irrompendo nel regolare svolgimento della vita comunitaria.
Autospettacolo. Atto unico del tempo e Marcia funebre o della geometria, processione secondo Paolo Scheggi, relativamente alla congruenza assoluta qui conseguita fra soggetto umano, pratica artistica e contesto espositivo, rappresentano – nella logica della trattazione ora in fase di conclusione – i casi dove l’argomentata intenzione di connettere arte e vita è stata espressa da Paolo Scheggi nel suo massimo grado di permeabilità, costituendone l’approdo ultimo. Inoltre, in particolare in queste due operazioni, egli prova di aver assunto la mai scontata maturità di sapersi muovere fra le classi operative, senza deficitare in coerenza d’indagine, attinenza linguistica e in qualità speculativa; una lezione per tanta contemporaneità.
Note
[1] Nel saggio scritto per la mostra Pittura oggetto a Milano. Fontana, Bonalumi, Castellani, Scheggi, tenutasi alla Galleria Arco d’Alibert studio d’arte di Roma nel 1966, Gillo Dorfles introdusse il fortunato termine di “Pittura-oggetto” [2] Al fine di trasmettere adeguatamente quanto la sperimentazione teatrale, in questi anni, stesse guadagnando rilevanza nella trasformazione della cultura europea, forse addirittura al punto di influenzare la direzione della ricerca in altri settori disciplinari, si ricorda che proprio nel 1968 vi è una performance del Living Theatre al politecnico di Milano e che la sua compagine di attori, quattro anni prima, si era trasferita dagli Stati Uniti all’Europa, affermandosi «come una delle rappresentazioni canoniche del Sessantotto» (De Marinis, 2000). Inoltre, nello stesso anno esce la raccolta di saggi, firmata dal regista Jerzy Grotowski Per un Teatro Povero, dove – descritto sommariamente – si predicava una pratica teatrale scevra di orpelli scenografici, per favorire un contatto immediato fra pubblico ed espressività dell’attore. Logicamente, non si hanno gli elementi per determinare la sussistenza di un nesso diretto fra queste circostanze differite nelle discipline e nella geografia ma, tuttavia, facendo appello al fatto che condividevano la stessa cronologia e che non si possiedono neppure i dati per asserire con certezza il contrario, sarebbe improvvido ritenerli completamente irrelati. Probabilmente, la sola cosa legittima da affermare è che, come un fiume carsico, serpeggiasse in Europa, come già notato da studiosi coevi, l’idea di estetizzare l’esperienza esistenziale, probabilmente come conseguenza di un atteggiamento critico circa questioni legate al rapporto individuo-società, a cui Scheggi non fu insensibile. [3] Per inquadrare l’applicazione, in Scheggi, di un modus operandi volutamente interdisciplinare, si citano le numerose collaborazioni con professionisti provenienti da altri campi quali, fra i tanti, oltre a Scabia, «musicisti come Franca Sacchi, registi come Raffaele Maiello e critici come Franco Quadri» (Corà, 2007). [4] Per giustezza, oltre che a Milano e a Firenze, si ricorda che Oplà-stick venne performata anche a Zagabria, sempre nel 1969, nella cornice di Nove Tendencije 4.
Bibliografia
2016 M. Barbero, La complessità originale di un percorso tra arte e vita, in L. M. Barbero (a cura di), Paolo Scheggi. Catalogo ragionato, Skira, Milano, 2016.
2011 Bignotti, Paolo Scheggi: dall’Intersuperficie all’Intercamera. L’opera oltre la parete, al di là del muro: per vivere uno spazio, per agire il tempo, in Ricerche di S/Confine. Oggetti e pratiche artistico/culturali: I muri, vol. II, n.1, Parma, 2011.
2016 Bignotti, Biografia, in L. M. Barbero (a cura di), Paolo Scheggi. Catalogo ragionato, Skira, Milano, 2016.
2007 Bortolotti, Paolo Scheggi. Dal quadro-oggetto all’ambiente vivibile, in B. Corà (a cura di), Scheggi: ferri-tele-carte. 1957-1971, Edizioni Il Ponte, Firenze, 2007.
2007 Corà, Paolo Scheggi: lo spazio davanti al buio, in B. Corà (a cura di), Scheggi: ferri-tele-carte. 1957-1971, Edizioni Il Ponte, Firenze, 2007.
2000 De Marinis, Il nuovo teatro: 1947-1970, Bompiani, Milano, 2000.
1966 Dorfles, Pittura-oggetto a Milano, in G. Celant, G. Dorfles, Pittura oggetto a Milano. Fontana, Bonalumi, Castellani, Scheggi, Arco d’Alibert studio d’arte, Roma, 1966.
1969 Rusconi, Paolo Scheggi: Riempire un tempo come tempo di teatralità, in Sipario, n. 276, Milano, 1969.
1968 Scheggi, Nota per gli Interventi plastico-visuali, 1968.
1976 Scheggi, L’autospettacolo. Nota critica, in D. Farneti Cera, F. Scheggi (a cura di), Paolo Scheggi, Edizioni del Naviglio, Milano, 1976.
1969 Vinca Masini, Oplà – azione – lettura – teatro + intersuperfici modulari, autoedito, Firenze, 1969.